domenica 11 dicembre 2011

Architettura e Modernità. Ipotesi di Ricerca


MONUMENTALITA’ URBANA IN BRASILE
STRATEGIE DELLA SPAZIALITA’ PAULISTA



Gli stilemi dell’architettura paulista sono più volte ricondotti, dalla critica, all’opera di Le Corbusier e di F. L. Wright e, pertanto, all’influenza che i due maestri hanno avuto nella definizione della “maniera brasiliana” di fare architettura.

A partire da J. B. Vilanova Artigas e Paulo Mendes da Rocha, fino ai giovani architetti contemporanei, la metodologia progettuale della Scuola di San Paolo in Brasile muta e si arricchisce, pur restando fedele a quei principi ordinatori che, comparsi a partire dagli anni ’50, hanno portato alla sua definizione.

Seppur distante nell’immagine finale, nella scelta dei materiali e nelle tecniche costruttive, è però nell’opera dell’altro grande maestro del moderno – Mies van der Rohe – che è possibile ravvisare una forte vicinanza con l’architettura paulista. Si ritiene interessante indagare quei temi che, affrontati dal Movimento Moderno e in particolare da Mies – il rapporto inscindibile tra architettura e struttura, il ricorso al piano orizzontale, il carattere monumentale dato all’edificio – trovano nella Scuola di San Paolo nuove formulazioni, dal punto di vista formale, ma anche ideologico

La ricerca condotta dall’architetto tedesco sullo spazio e sui rapporti tra forma e tecnica, insieme alle sue idee sull’arte del costruire, hanno probabilmente influenzato quest’architettura, che ricerca nella chiarezza costruttiva, nella purezza del materiale, nell’essenzialità della forma, la sua bellezza.

Mies van der Rohe, New National Gallery, Berlino, 1968
E’ di Mies Van der Rohe il tentativo di elevare la tecnica alla sfera dell’architettura e, come sostiene Frampton, di monumentalizzare la tecnologia in opere come la Crown Hall del 1958 e la Neue Nationalgalerie di Berlino, completata nel 1968, nelle quali l’edificio assume l’immagine di un tempio moderno, immerso nella città.

Nell’edificio dell’IIT, ma in maniera più chiara in quello di Berlino, egli concilia il continuum spaziale con la logica costruttiva tettonica; in entrambi lo spazio è chiuso da una grande piastra piana in acciaio. 
Le ricerche miesiane sulla struttura perfetta avevano già portato l’architetto tedesco a cimentarsi, nel 1953, con un progetto ambizioso, ma soprattutto estremo: la Convention Hall di Chicago. 


J. B. Vilanova Artigas, FAU_USP, San Paolo, 1961
La riduzione dell’oggetto architettonico a forme elementari, il ricorso alla piastra di copertura, le grandi luci strutturali che permettono di liberare lo spazio interno da sostegni intermedi, il carattere monumentale impresso all’edificio sono tutti temi riconoscibili nell’architettura paulista, espressi attraverso strategie compositive varie e diversificate.

Alcune opere dei maestri brasiliani – J. B. Vilanova Artigas e Paulo Mendes da Rocha – consentono pertanto di individuare analogie e differenze con l’opera miesiana.


P. Mendes da Rocha, MuBE, San Paolo, 1988
P. Mendes da Rocha, Praça do Patriarca, San Paolo, 1992
Nei progetti brasiliani lo spazio è inteso come democratico, flessibile, collettivo, interno o esterno che sia. Queste architetture possono essere attraversate senza entrarvi: la strada diventa piazza ed è l’edificio a definirla, a sovrastarla senza invaderla; esso si solleva dal suolo, diviene la grande copertura che delimita, ma non chiude, consentendo alla città e alla natura di penetrarvi. L’essenzialità, intesa come volontà di riduzione degli elementi architettonici, porta, a sua volta, ad una diminuzione, alle volte quasi impensabile, degli elementi strutturali: il minimalismo formale coincide con quello strutturale.

L’immagine che si ottiene attraverso il ricorso alla grande luce strutturale, è vicina ad una grandezza monumentale, sobria ed essenziale, dove la scelta della forma, insieme al linguaggio brutalista, rafforza l’espressività dell’oggetto architettonico, volto a rappresentare il popolo brasiliano.

martedì 11 ottobre 2011

Recensione

Architettura e modernità
Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica


Antonino Saggio
Carocci, Roma 2010 (467 p.)

Ipotizziamo di non voler leggere questo libro. Osservandolo possiamo fare le prime considerazioni. Architettura e modernità si articola in otto parti, trentatre capitoli, quattrocentosessantasette pagine, quattrocentoquarantadue illustrazioni. Di per sé questi numeri dicono poco o niente, ma se consideriamo il sottotitolo – Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica – le cifre permettono di fare alcune riflessioni.

Il testo copre un arco temporale molto ampio, circa ottanta anni. Le date, come le parole, sono importanti e l’autore sembra riconoscerne il valore: ogni parte del libro ha infatti una datazione storica. La suddivisione temporale appare essere un primo elemento di comprensione della struttura. La scrittura risulta essere sequenziale, lineare, come è naturale che sia per un testo che si presenta come una storia dell’architettura, seppur abbia un taglio saggistico, come dice lo stesso Saggio.

Ottanta anni di storia dell’architettura sono qui sintetizzati in otto parti di limitata ampiezza: l’autore ha fatto una sintesi, certo, ma soprattutto delle scelte.

Per comprenderle, ci aiutiamo, dopo i numeri, con le immagini. Sfogliando il testo scopriamo che esse non sono scontate, ma accuratamente selezionate; raccontano il libro, prima ancora delle parole.


L’immagine in copertina riproduce un particolare di uno degli edifici progettati da Eric Owen Moss a Culver City, in California. La scelta si ritiene legata a quel «What Wall?» che il progettista scrive, sul suo sito internet, accanto all’immagine. La parete piana, asettica ed austera, tenta di comprimere il nuovo muro, che da essa fuoriesce. Entrambi costituiscono l’involucro, ma mentre il primo ha un carattere bidimensionale, il secondo sembra muoversi in più direzioni, quasi ci fossero dei fili immaginari a tirarlo. Come un quadro cubista, esso si impadronisce della quarta dimensione: il tempo.

L’immagine scelta dall’autore è un’architettura in movimento. Essa sovverte il sistema canonico e rappresenta il cambiamento che l’informatica ha apportato anche nell’architettura.

L’immagine che introduce la prima parte del libro – Gli anni della macchina: 1919 – 29 – intende rimarcarne il tema: in primo piano vi è infatti “la macchina”, mentre è relegata sullo sfondo la casa all’Esposizione Weissenhof a Stoccarda di Le Corbusier. Comprendiamo, dunque, che il libro parte da quell’idea di progresso e d’innovazione che trova nell’architettura degli anni trenta la sua prima celebrazione.

Questa immagine spiega quel “Dal Bauhaus” del sottotitolo, mentre la Mediateca di Sendai di Toyo Ito, che campeggia sulla pagina dell’ottava ed ultima parte – La rivoluzione informatica dell’architettura. Dopo il 2001 –, rappresenta l’era digitale.

Il progetto dell’architetto giapponese è, a ben diritto, simbolo di tendenze architettoniche che possono ricondursi alle trasformazioni dovute alla comunicazione globale. La Mediateca è trasparente, interagisce con l’esterno, la struttura richiama gli elementi naturali e di essi riprende quell’idea di crescita e di sviluppo continuo. Quest’architettura si fa interprete dell’esigenza contemporanea di una diffusione priva di confini, materiali e immateriali.

Questo ed altro può dedursi dalle immagini scelte dall’autore. Esse spaziano dai progetti di architettura, alla pittura, alla scultura; sottolineano che la storia degli eventi politici e dell’arte debbono leggersi insieme, per poterne comprendere scelte e rappresentazioni.

Le parole, i titoli, i paragrafi, i nomi permettono di intendere profondamente ciò che le immagini e le date fanno solo intuire. Esse consentono di dedurre quel codice interpretativo che l’autore attua per spiegare un processo, definito “rivoluzione”. L’informatica e l’informazione hanno provocato un mutamento profondo nelle nostre vite, comportando il vacillare, se non la deflagrazione, del modello precedente, comunemente assunto.

Il libro è un viaggio attraverso l’architettura, dove forme e idee si spiegano vicendevolmente. E’ un percorso, apparentemente lineare, ma ricco di rimandi ed analogie: un continuo guardare al prima per spiegare il dopo.

Architettura e Modernità tenta di aggiungere un tassello mancante alla storia dell’architettura, ricerca il filo conduttore capace di spiegare la presenza del quarto potere – l’informazione – nell’architettura contemporanea.

Le scelte di progetti e progettisti, non tutti condivisibili, sono sempre funzionali allo scopo: evidenziano e spiegano. Del resto si sa: il fine giustifica i mezzi.

martedì 12 luglio 2011

trasparenze

Nel Movimento Moderno la trasparenza era sinonimo di innovazione, di progresso. Esprimeva il desiderio di rinnovamento di un’intera generazione di architetti, combatteva il volume chiuso e compatto, lavorando per piani, annullava il confine tra interno ed esterno.

Oggi, alla “trasparenza letterale” del vetro, propria del Moderno, si affianca una “trasparenza totale” – si pensi alla Water / Glass di Kengo Kuma -, ma essa assume significati del tutto diversi: la trasparenza diviene dissolvenza, gli edifici divengono oggetti evanescenti, quasi immateriali.

Da parte degli architetti c’è il desiderio di velare più che rivelare apertamente, di dare un’immagine mutevole, che rispecchi la società attuale, ristabilendo anche una “soglia” tra interno ed esterno.

Le tecniche utilizzate sono diverse ed innovative. Esse consentono di utilizzare materiali tradizionali o con finalità differenti per ottenere effetti del tutto nuovi: rendere visivamente permeabili superfici naturalmente opache, aumentare le variabili che determinano la trasparenza (dimensione, densità, forma, ecc).

Lo strumento informatico aiuta e supporta questo tipo di ricerca. Herzog & de Meuron in due recenti opere - il Museo Michael de Young a San Francisco e il Centro Culturale Oscar Dominguez a Santa Cruz de Tenerife –partono da un’immagine digitale, la traducono in pixel ed ottengono il rivestimento esterno, una trama microforata nel primo, il cemento irregolarmente forato nel secondo.

Qui, come in altre opere, l’idea compositiva si serve dell’informatica per raggiungere l’effetto desiderato, la formula matematica non ha il sopravvento, l’architettura è salva.

A progetti come il Blur di Diller & Scofidio, in cui l’architettura muta al variare delle condizioni atmosferiche, si preferisce la trasparenza visiva, sonora, olfattiva del Padiglione svizzero per l’Expo di Hannover di Peter Zumthor, dove l’architettura interagisce con l’ambiente esterno, ma il risultato è un’immagine poetica e non una macchina mutevole.

domenica 26 giugno 2011

La scelta della parte


Lucien Kroll, Dormitori per studenti, Università di Louvain, Bruxelles 1970 - 1976




Alejandro Aravena, progetto Elemental nel quartiere Monroy a Iquique, Cile 2001

La forza delle idee



Richard Buckminster Fuller con i modelli di cupola geodetica
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Craig Chamberlain,
Dome Village a Los Angeles - 1994 - 2007















lunedì 16 maggio 2011

La ricerca miesiana sullo spazio e sui rapporti tra tecnica e architettura, negli anni ’50, porta ad opere nelle quali lo svuotamento del primo è totale ed assoluto.

A partire da casa Farnsworth, attraverso la casa Fifty by Fifty, il teatro di Mannheim, la Crown Hall, fino ad arrivare alla gigantesca Convention Hall, Mies potenzia lo spazio interno, lo apre a “qualunque funzione”, rendendolo così estremamente flessibile.

Non siamo anche qui in presenza di uno “continuum libero e aperto”? L’uomo è libero di percorrere lo spazio, è separato dalla città, ma, al contempo, grazie alle vetrate, è in costante relazione visiva con essa.


La riduzione all’essenziale, che Cézanne opera nella pittura, può essere vista come uno dei prodromi della diminuzione degli elementi architettonici e strutturali, che appare nelle opere di Mies?

martedì 3 maggio 2011

“ [l’architettura e gli architetti] Sono fermi su alcune certezze che in realtà i tempi, le necessità, le possibilità, i nuovi materiali avevano già scosso alle fondamenta” (A. Saggio)

Alcune di queste “certezze” non sono forse il progettare secondo sistemi costruttivi tradizionali, trovati e sperimentati nel tempo? Il crollo di tali “certezze” non è forse legato ad un’impossibilità e ad un’incapacità, iniziali, di comprendere le nuove possibilità costruttive?

In un articolo comparso su Casabella dal titolo "L’insegnamento dell’architettura” , Nervi spiega come l’architetto, per creare l’opera architettonica, deve avere una completa padronanza della tecnica, conoscerne possibilità e limiti: "non ha bisogno di formule esatte, ma di concetti ben chiari in senso qualitativo e largamente approssimati, in senso quantitativo".

Il Moderno, nella sua fase iniziale, si manifesta attraverso opere d’ingegneria civile perché gli ingegneri sono i soli progettisti capaci di tradurre in opera architettonica le immense opportunità che i processi industriali e i nuovi materiali offrono. Il Movimento raggiunge il suo massimo grado d’espressione quando l’architettura è in grado di sfruttare tali opportunità.

La Galleria Nazionale di Arte Moderna a Berlino e la Convention hall di Mies Van der Rohe non esprimono forse una conoscenza tecnica che consente la semplificazione e la riduzione degli elementi strutturali in favore della composizione architettonica?